… per la Corresponsabilità
- Corresponsabilità: Quali azioni concrete possiamo promuovere per favorire una maggiore corresponsabilità tra i membri della comunità ecclesiale, garantendo che ognuno si senta coinvolto nei processi decisionali?
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INTRODUZIONE:
L’esigenza che emerge con forza dalla narrazione del vissuto ecclesiale è quella di comunità che fungano da “case” accoglienti, promuovendo una Chiesa più ospitale. È necessario ripensare le relazioni all’interno delle comunità per garantire un coinvolgimento reale, effettivo e completo di tutti i membri. Il modello di comunità centrato esclusivamente sul prete è considerato ormai insostenibile, anche dagli stessi sacerdoti.
La corresponsabilità nella Chiesa ha trovato dal Concilio Vaticano II in poi degli stru- menti per la sua realizzazione. È convinzione di tutti che siano stati un grande passo in avanti, ma che servano anche scelte ulteriori, perché gli strumenti già esistenti, a partire dagli organismi di partecipazione, possano funzionare come spazi di autentico discerni- mento ecclesiale: per questo occorre incentivare, nel loro funzionamento, la dinamica della sinodalità.
Il concetto di corresponsabilità è collegato ai meccanismi di partecipazione, chiedendo di valorizzare il ruolo degli organismi di partecipazione come luoghi di autentico discernimento e progettazione. Sant’Ignazio di Antiochia affermava: “Dove è Gesù Cristo, là è la Chiesa.” Ciò sottolinea che la partecipazione attiva è fondamentale per la vitalità della Chiesa.
Come anche affermato nel documento missionario della comunità in un mondo in continua trasformazione, la comunità richiama il ministero presbiterale dei parroci e dei sacerdoti collaboratori nell’ottica del servizio e della reciproca collaborazione e integrazione. Con opportune analogie, sembra che in questo contesto potrebbe essere pertinente adottare la consapevolezza di Paolo: “Non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo, invece, collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi” (2Cor 1,24). Ciò implica che il ministero presbiterale, specialmente il ministero del parroco, pur rimanendo una “figura chiave della comunità, anche in relazione al suo indispensabile rinnovamento” (Card. Ruini, prolusione), non può essere interpretato come un ruolo al di sopra della comunità, solitario, gerarchico o autosufficiente. Al contrario, va compreso in termini di circolarità comunionale, corresponsabilità, riconoscimento della dignità e valorizzazione dei carismi di tutti.
Utilizzando un’immagine, seppur imperfetta ma evocativa, il parroco è in qualche modo paragonabile a un direttore d’orchestra: le composizioni non sono di sua creazione, ma egli ne è l’interprete e non può modificarle a proprio piacimento; studia lo spartito ma affida l’esecuzione ai musicisti; conosce il ruolo di ciascuno ma non si sostituisce agli esecutori, anzi li sostiene affinché suonino nel modo più adatto in perfetta armonia con l’insieme; da solo non raggiunge alcuna conclusione, ma allo stesso modo gli altri da soli non giungono da nessuna parte.[1]
Quindi, il tema della corresponsabilità solleva anche la questione dell’esercizio dell’autorità nella vita della Chiesa e nelle comunità locali. La sperimentazione di una “guida sinodale” in alcune parrocchie, dove la responsabilità è condivisa tra un gruppo selezionato e preparato insieme al parroco, rappresenta un esempio di corresponsabilità nella vita pastorale della comunità. Come affermava Sant’Agostino: “Là dove c’è amore, c’è anche comprensione.” Questo sottolinea che un approccio collettivo e comprensivo all’autorità può portare a una Chiesa più inclusiva e partecipativa.
Dagli Atti degli apostoli 1, 15-26
In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: 16″Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. 17Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. 18Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. 19La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè “Campo del sangue”. 20Sta scritto infatti nel libro dei Salmi:
La sua dimora diventi deserta
e nessuno vi abiti,
e il suo incarico lo prenda un altro .
21Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, 22cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione”.
23Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato Giusto, e Mattia. 24Poi pregarono dicendo: “Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto 25per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava”. 26Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli.
Dagli Atti degli apostoli 15, 1-41
Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: “Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati”.
2Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. 3Essi dunque, provveduti del necessario dalla Chiesa, attraversarono la Fenicia e la Samaria, raccontando la conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli. 4Giunti poi a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani, e riferirono quali grandi cose Dio aveva compiuto per mezzo loro. 5Ma si alzarono alcuni della setta dei farisei, che erano diventati credenti, affermando: “È necessario circonciderli e ordinare loro di osservare la legge di Mosè”. 6Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema.
7Sorta una grande discussione, Pietro si alzò e disse loro: “Fratelli, voi sapete che, già da molto tempo, Dio in mezzo a voi ha scelto che per bocca mia le nazioni ascoltino la parola del Vangelo e vengano alla fede. 8E Dio, che conosce i cuori, ha dato testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; 9e non ha fatto alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede. 10Ora dunque, perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare? 11Noi invece crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro”.
12Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare Bàrnaba e Paolo che riferivano quali grandi segni e prodigi Dio aveva compiuto tra le nazioni per mezzo loro.
13Quando essi ebbero finito di parlare, Giacomo prese la parola e disse: “Fratelli, ascoltatemi. 14Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere dalle genti un popolo per il suo nome. 15Con questo si accordano le parole dei profeti, come sta scritto:
16 Dopo queste cose ritornerò
e riedificherò la tenda di Davide, che era caduta;
ne riedificherò le rovine e la rialzerò,
17 perché cerchino il Signore anche gli altri uomini
e tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio nome,
dice il Signore, che fa queste cose,
18 note da sempre.
19Per questo io ritengo che non si debbano importunare quelli che dalle nazioni si convertono a Dio, 20ma solo che si ordini loro di astenersi dalla contaminazione con gli idoli, dalle unioni illegittime, dagli animali soffocati e dal sangue. 21Fin dai tempi antichi, infatti, Mosè ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe”.
22Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. 23E inviarono tramite loro questo scritto: “Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! 24Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. 25Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, 26uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. 27Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. 28È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: 29astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!”.
30Quelli allora si congedarono e scesero ad Antiòchia; riunita l’assemblea, consegnarono la lettera. 31Quando l’ebbero letta, si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva. 32Giuda e Sila, essendo anch’essi profeti, con un lungo discorso incoraggiarono i fratelli e li fortificarono. 33Dopo un certo tempo i fratelli li congedarono con il saluto di pace, perché tornassero da quelli che li avevano inviati. [ 34] 35Paolo e Bàrnaba invece rimasero ad Antiòchia, insegnando e annunciando, insieme a molti altri, la parola del Signore.
36Dopo alcuni giorni Paolo disse a Bàrnaba: “Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunciato la parola del Signore, per vedere come stanno”. 37Bàrnaba voleva prendere con loro anche Giovanni, detto Marco, 38ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro, in Panfìlia, e non aveva voluto partecipare alla loro opera. 39Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Bàrnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. 40Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore.
41E, attraversando la Siria e la Cilìcia, confermava le Chiese.
GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, su vocazione e missione dei laici nella chiesa e nel mondo, 30 Dicembre 1988, nn. 15. 27-28
n.15. La novità cristiana è il fondamento e il titolo dell’eguaglianza di tutti i battezzati in Cristo, di tutti i membri del Popolo di Dio: «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione, una sola salvezza, una sola speranza e indivisa carità»(28). In forza della comune dignità battesimale il fedele laico è corresponsabile, insieme con i ministri ordinati e con i religiosi e le religiose, della missione della Chiesa.
Ma la comune dignità battesimale assume nel fedele laico una modalità che lo distingue, senza però separarlo, dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa. Il Concilio Vaticano II ha indicato questa modalità nell’indole secolare: «L’indole secolare è propria e peculiare dei laici».
Proprio per cogliere in modo completo, adeguato e specifico la condizione ecclesiale del fedele laico è necessario approfondire la portata teologica dell’indole secolare alla luce del disegno salvifico di Dio e del mistero della Chiesa.
Come diceva Paolo VI, la Chiesa «ha un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo Incarnato, e che è realizzata in forme diverse per i suoi membri»(30).
La Chiesa, infatti, vive nel mondo anche se non è del mondo (cf. Gv 17, 16) ed è mandata a continuare l’opera redentrice di Gesù Cristo, la quale «mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale».
Certamente tutti i membri della Chiesa sono partecipi della sua dimensione secolare; ma lo sono in forme diverse. In particolare la partecipazione dei fedeli laici ha una sua modalità di attuazione e di funzione che, secondo il Concilio, è loro «propria e peculiare»: tale modalità viene designata con l’espressione «indole secolare».
In realtà il Concilio descrive la condizione secolare dei fedeli laici indicandola, anzitutto, come il luogo nel quale viene loro rivolta la chiamata di Dio: «Ivi sono da Dio chiamati». Si tratta di un «luogo» presentato in termini dinamici: i fedeli laici «vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta». Essi sono persone che vivono la vita normale nel mondo, studiano, lavorano, stabiliscono rapporti amicali, sociali, professionali, culturali, ecc. Il Concilio considera la loro condizione non semplicemente come un dato esteriore e ambientale, bensì come una realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato. Anzi afferma che «lo stesso Verbo incarnato volle essere partecipe della convivenza umana (…) Santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali traggono origine i rapporti sociali, volontariamente sottomettendosi alle leggi della sua patria. Volle condurre la vita di un lavoratore del suo tempo e della sua regione».
Il «mondo» diventa così l’ambito e il mezzo della vocazione cristiana dei fedeli laici, perché esso stesso è destinato a glorificare Dio Padre in Cristo. Il Concilio può allora indicare il senso proprio e peculiare della vocazione divina rivolta ai fedeli laici. Non sono chiamati ad abbandonare la posizione ch’essi hanno nel mondo. Il Battesimo non li toglie affatto dal mondo, come rileva l’apostolo Paolo: «Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato» (1 Cor 7, 24); ma affida loro una vocazione che riguarda proprio la situazione intramondana: i fedeli laici, infatti, «sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e con il fulgore della fede, della speranza e della carità». Così l’essere e l’agire nel mondo sono per i fedeli laici una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificamente teologica ed ecclesiale. Nella loro situazione intramondana, infatti, Dio manifesta il suo disegno e comunica la particolare vocazione di «cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio».
Proprio in questa prospettiva i Padri sinodali hanno detto: «L’indole secolare del fedele laico non è quindi da definirsi soltanto in senso sociologico, ma soprattutto in senso teologico. La caratteristica secolare va intesa alla luce dell’atto creativo e redentivo di Dio, che ha affidato il mondo agli uomini e alle donne, perché essi partecipino all’opera della creazione, liberino la creazione stessa dall’influsso del peccato e santifichino se stessi nel matrimonio o nella vita celibe, nella famiglia, nella professione e nelle varie attività sociali» (39).
La condizione ecclesiale dei fedeli laici viene radicalmente definita dalla loro novità cristiana e caratterizzata dalla loro indole secolare.
Le immagini evangeliche del sale, della luce e del lievito, pur riguardando indistintamente tutti i discepoli di Gesù, trovano una specifica applicazione ai fedeli laici. Sono immagini splendidamente significative, perché dicono non solo l’inserimento profondo e la partecipazione piena dei fedeli laici nella terra, nel mondo, nella comunità umana; ma anche e soprattutto la novità e l’originalità di un inserimento e di una partecipazione destinati alla diffusione del Vangelo che salva.
L’impegno apostolico nella parrocchia
- 27. E’ necessario ora considerare più da vicino la comunione e la partecipazione dei fedeli laici alla vita della parrocchia. In tal senso è da richiamarsi l’attenzione di tutti i fedeli laici, uomini e donne, su di una parola tanto vera, significativa e stimolante del Concilio: «All’interno delle comunità della Chiesa _ leggiamo nel Decreto sull’apostolato dei laici _ la loro azione è talmente necessaria che senza di essa lo stesso apostolato dei pastori non può per lo più raggiungere la sua piena efficacia». E’, questa, un’affermazione radicale, che dev’essere evidentemente intesa nella luce della «ecclesiologia di comunione»: essendo diversi e complementari, i ministeri e i carismi sono tutti necessari alla crescita della Chiesa, ciascuno secondo la propria modalità.
I fedeli laici devono essere sempre più convinti del particolare significato che assume l’impegno apostolico nella loro parrocchia. E’ ancora il Concilio a rilevarlo autorevolmente: «La parrocchia offre un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le differenze umane che vi si trovano e inserendole nell’universalità della Chiesa. Si abituino i laici a lavorare nella parrocchia intimamente uniti ai loro sacerdoti, ad esporre alla comunità della Chiesa i propri problemi e quelli del mondo e le questioni che riguardano la salvezza degli uomini, perché siano esaminati e risolti con il concorso di tutti; a dare, secondo le proprie possibilità, il loro contributo ad ogni iniziativa apostolica e missionaria della propria famiglia ecclesiastica».
L’accenno conciliare all’esame e alla risoluzione dei problemi pastorali «con il concorso di tutti» deve trovare il suo adeguato e strutturato sviluppo nella valorizzazione più convinta, ampia e decisa dei Consigli pastorali parrocchiali, sui quali hanno giustamente insistito i Padri sinodali(102).
Nelle circostanze attuali i fedeli laici possono e devono fare moltissimo per la crescita di un’autentica comunione ecclesiale all’interno delle loro parrocchie e per ridestare lo slancio missionario verso i non credenti e verso gli stessi credenti che hanno abbandonato o affievolito la pratica della vita cristiana.
Se la parrocchia è la Chiesa posta in mezzo alle case degli uomini, essa vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi. Spesso il contesto sociale, soprattutto in certi paesi e ambienti, è violentemente scosso da forze di disgregazione e di disumanizzazione: l’uomo è smarrito e disorientato, ma nel cuore gli rimane sempre più il desiderio di poter sperimentare e coltivare rapporti più fraterni e più umani La risposta a tale desiderio può venire dalla parrocchia, quando questa, con la viva partecipazione dei fedeli laici, rimane coerente alla sua originaria vocazione e missione: essere nel mondo «luogo» della comunione dei credenti e insieme «segno» e «strumento» della vocazione di tutti alla comunione; in una parola, essere la casa aperta a tutti e al servizio di tutti o, come amava dire il Papa Giovanni XXIII, la fontana del villaggio alla quale tutti ricorrono per la loro sete.
Forme di partecipazione nella vita della Chiesa
- 28. I fedeli laici, unitamente ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, formano l’unico Popolo di Dio e Corpo di Cristo.
L’essere «membri» della Chiesa nulla toglie al fatto che ciascun cristiano sia un essere «unico e irripetibile», bensì garantisce e promuove il senso più profondo della sua unicità e irripetibilità, in quanto fonte di varietà e di ricchezza per l’intera Chiesa. In tal senso Dio in Gesù Cristo chiama ciascuno col proprio inconfondibile nome. L’appello del Signore: «Andate anche voi nella mia vigna» si rivolge a ciascuno personalmente e suona: «Vieni anche tu nella mia vigna!».
Così ciascuno nella sua unicità e irripetibilità, con il suo essere e con il suo agire, si pone al servizio della crescita della comunione ecclesiale, come peraltro singolarmente riceve e fa sua la comune ricchezza di tutta la Chiesa. E’ questa la «Comunione dei Santi», da noi professata nel Credo: il bene di tutti diventa il bene di ciascuno e il bene di ciascuno diventa il bene di tutti. «Nella santa Chiesa _ scrive San Gregorio Magno _ ognuno è sostegno degli altri e gli altri sono suo sostegno».
E’ del tutto necessario che ciascun fedele laico abbia sempre viva coscienza di essere un «membro della Chiesa», al quale è affidato un compito originale insostituibile e indelegabile, da svolgere per il bene di tutti. In una simile prospettiva assume tutto il suo significato l’affermazione conciliare circa l’assoluta necessità dell’apostolato della singola persona: «L’apostolato che i singoli devono svolgere, sgorgando abbondantemente dalla fonte di una vita veramente cristiana (cf. Gv 4, 14), è la prima forma e la condizione di ogni apostolato dei laici, anche di quello associato, ed è insostituibile. A tale apostolato, sempre e dovunque proficuo, ma in certe circostanze l’unico adatto e possibile, sono chiamati e obbligati tutti i laici, di qualsiasi condizione, anche se manca loro l’occasione o la possibilità di collaborare nelle associazioni»(104).
Nell’apostolato personale ci sono grandi ricchezze che chiedono di essere scoperte per un’intensificazione del dinamismo missionario di ciascun fedele laico. Con tale forma di apostolato, l’irradiazione del Vangelo può farsi quanto mai capillare, giungendo a tanti luoghi e ambienti quanti sono quelli legati alla vita quotidiana e concreta dei laici. Si tratta, inoltre, di un’irradiazione costante, essendo legata alla continua coerenza della vita personale con la fede; come pure di un’irradiazione particolarmente incisiva, perché, nella piena condivisione delle condizioni di vita, del lavoro, delle difficoltà e speranze dei fratelli, i fedeli laici possono giungere al cuore dei loro vicini o amici o colleghi, aprendolo all’orizzonte totale, al senso pieno dell’esistenza: la comunione con Dio e tra gli uomini.
FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 Novembre 2013, nn. 8.120
- 8: La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie».[26] Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione.[27] Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione.[28] È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione.
Il sacerdozio ministeriale è uno dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo, ma la grande dignità viene dal Battesimo, che è accessibile a tutti. La configurazione del sacerdote con Cristo Capo – vale a dire, come fonte principale della grazia – non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto. Nella Chiesa le funzioni «non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri».[74] Di fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi. Anche quando la funzione del sacerdozio ministeriale si considera “gerarchica”, occorre tenere ben presente che «è ordinata totalmente alla santità delle membra di Cristo»
- 120: In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”. Se non siamo convinti, guardiamo ai primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41). La samaritana, non appena terminato il suo dialogo con Gesù, divenne missionaria, e molti samaritani credettero in Gesù «per la parola della donna» (Gv 4,39). Anche san Paolo, a partire dal suo incontro con Gesù Cristo, «subito annunciava che Gesù è il figlio di Dio» (At 9,20). E noi che cosa aspettiamo?
XVI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI
Relazione di Sintesi, UNA CHIESA SINODALE IN MISSIONE, 2023
Organismi di partecipazione
Convergenze
- In quanto membri del Popolo fedele di Dio, tutti i battezzati sono corresponsabili della missione, ciascuno secondo la sua vocazione, con la sua esperienza e competenza; pertanto, tutti contribuiscono a immaginare e decidere passi di riforma delle comunità cristiane e della Chiesa tutta, così che essa viva “la dolce e confortante gioia di evangelizzare”. La sinodalità, nella composizione e nel funzionamento degli organismi in cui prende corpo, ha come finalità la missione. La corresponsabilità è per la missione: questo attesta che si è davvero riuniti nel nome di Gesù, questo affranca gli organismi di partecipazione da involuzioni burocratiche e da logiche mondane di potere, questo rende fruttuoso il riunirsi.
- Alla luce del magistero recente (in particolare Lumen gentium e Evangelii gaudium), questa corresponsabilità di tutti nella missione deve essere il criterio alla base della strutturazione delle comunità cristiane e dell’intera Chiesa locale con tutti i suoi servizi, in tutte le sue istituzioni, in ogni suo organismo di comunione (cfr. 1Cor 12,4-31). Il giusto riconoscimento della responsabilità dei laici per la missione nel mondo non può diventare il pretesto per attribuire ai soli Vescovi e preti la cura della comunità cristiana.
- L’autorità per eccellenza è quella della Parola di Dio, che deve ispirare ogni incontro degli organismi di partecipazione, ogni consultazione e ogni processo decisionale. Perché questo accada è necessario che, ad ogni livello, il riunirsi attinga senso e forza dall’Eucaristia e si svolga alla luce della Parola ascoltata e condivisa nella preghiera.
- La composizione dei vari Consigli per il discernere e il decidere di una comunità missionaria sinodale deve prevedere la presenza di uomini e donne che vantino un profilo apostolico; che si distinguano anzitutto non per una frequentazione assidua di spazi ecclesiali, ma per una genuina testimonianza evangelica nelle realtà più ordinarie della vita. Il Popolo di Dio è tanto più missionario, quanto più capace di far risuonare in sé, anche negli organismi di partecipazione, le voci di quanti già vivono la missione abitando il mondo e le sue periferie.
Questioni da affrontare
- Alla luce di quanto abbiamo condiviso, riteniamo importante riflettere su come promuovere la partecipazione nei vari Consigli, soprattutto quando i praticanti ritengono di non essere all’altezza del compito. La sinodalità cresce nel coinvolgimento di ogni membro in processi di discernimento e decisione per la missione della Chiesa: in tal senso ci edificano e incoraggiano molte piccole comunità cristiane nelle Chiese emergenti, che vivono un quotidiano “corpo a corpo” fraterno intorno alla Parola e all’Eucaristia,
- Nella composizione degli organismi di partecipazione non possiamo ulteriormente procrastinare il compito affidato da Papa Francesco in Amoris laetitia. La partecipazione di uomini e donne che vivono vicende affettive e coniugali complesse «può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate» (n. 299). Il discernimento in questione riguarda anche l’esclusione da organismi di partecipazione della comunità parrocchiale e diocesana, praticata in non poche Chiese locali.
- Nella prospettiva dall’originalità evangelica della comunione ecclesiale: come possiamo intrecciare l’aspetto consultivo e quello deliberativo della sinodalità? Sulla base della configurazione carismatica e ministeriale del Popolo di Dio: come integriamo nei vari organismi di partecipazione i compiti di consigliare, discernere, decidere?
Proposte
- Sulla base della comprensione del Popolo di Dio quale soggetto attivo della missione di evangelizzazione, si codifichi l’obbligatorietà dei Consigli Pastorali nelle comunità cristiane e nelle Chiese locali. Insieme, si potenzino gli organismi di partecipazione, con un’adeguata presenza di laici e laiche, con l’attribuzione di funzioni di discernimento in vista di decisioni realmente apostoliche.
- Gli organismi di partecipazione rappresentano il primo ambito in cui vivere la dinamica del rendiconto di chi esercita compiti di responsabilità. Mentre li incoraggiamo nel loro impegno, li invitiamo a praticare la cultura del rendiconto nei confronti della comunità di cui sono espressione.
Approfondimento:
Autorità e sinodalità
Rossano SALA
“Autorità” viene da augere, che ha la radice nel verbo “crescere”. È una forza generativa, che fa crescere tutti. Chi ha autorità dovrebbe prima di tutto autorizzare coloro che agiscono a fare il bene, autenticandone l’opera dopo attento discernimento, confermando così nella fede i suoi fratelli dopo averne vagliato la correttezza.
È dunque evidente che la sinodalità non elimina l’autorità, ma la inserisce nel contesto del popolo di Dio. Se l’autorità è ben strutturata e ben esercitata, la sinodalità la esalta. Il dilemma tra autorità e sinodalità è falso, perché la sinodalità a livello ecclesiale è la corretta articolazione tra i tutti (il popolo di Dio costituito dai battezzati), gli alcuni (i Vescovi in quanto pastori) e l’uno (il successore di Pietro in quanto è colui che presiede nella carità tutte le Chiese). Ciò che va assolutamente evitato è il “democraticismo”, cioè il mettere ai voti le dinamiche spirituali che la comunità ecclesiale sta vivendo. I diversi livelli ecclesiali nella sinodalità non vengono eliminati né confusi, ma pienamente valorizzati.
Ripeto: il cammino sinodale rafforza l’autorità di coloro che sono chiamati al compito di “presiedere nella carità”, non la indebolisce. Sinodalità significa mettersi tutti davanti a Dio, non mettere tutto ai voti! Per questo è un cammino nello Spirito: cammino di ascolto, di conversione, di rinnovamento. Di certo la sinodalità non è abdicazione all’autorità in nome di un “populismo ecclesiale” o di un “paternalismo accondiscendente” che non hanno diritto di cittadinanza né nella Chiesa né nell’oratorio, perché in fondo non sono che forme mascherate di “clericalismo intollerante” e di “arroganza mimetizzata”.
Sinodalità e governo
Per concludere e rilanciare, dal Documento preparatorio emerge un pressante invito a verificare la qualità relazionale della Chiesa, sia nei suoi dinamismi interni che nelle sue dinamiche esterne. Per quanto riguarda il governo della Chiesa e nella Chiesa, si invita a verificare il nostro modo di procedere nella consultazione e nella deliberazione: cioè il decision-making (quali sono i passi di ascolto e di condivisione che preparano il terreno a una decisione?) e il decision-taking (quali sono i passaggi che fanno arrivare l’autorità a una decisione concreta e vincolante per tutti?).
Per esemplificare su questo punto e concludere, lasciando spazio al Dossier sulla regia dell’oratorio, desidero fare memoria con i lettori di ciò che è avvenuto nel 1996 in Algeria. Abbiamo seguito con commozione la storia dei monaci trappisti di Tibhirine e penso che la maggior parte dei lettori di NPG abbiano visto il film “Uomini di Dio”. Uno dei momenti più belli e interessanti del film è il percorso non facile che ha portato alla decisione di restare in Algeria, nonostante i rischi. In un primo momento Christian de Chergé, priore del monastero, comunica alla comunità la sua decisione di far rimanere la comunità. La comunità radunata in capitolo si oppone. Non tanto però al contenuto della decisione, ma al metodo sostanzialmente “abusante” che ha portato a questo. Non c’è stato alcun cammino condiviso, ma una decisione dell’autorità avvenuta senza un discernimento comunitario. I monaci fanno notare al loro superiore che egli è stato eletto pensando alla sua capacità di condurre il discernimento comunitario, non per sostituirsi ad esso. Sappiamo com’è andata a finire: il priore, dopo un autentico discernimento spirituale, arriva alla conclusione – maturata nell’ambito della comunità: ascolto, dialogo, preghiera, adorazione – di rimanere a Tibhirine. In fondo si tratta della stessa decisione in termini di contenuto, ma con due metodi completamente diversi: il primo autoritario e dispotico, il secondo comunitario e sinodale. Diventare registi dell’oratorio significa cercare di andare con convinzione e determinazione in quest’ultima direzione.[2]
[1] Cf. Luca Bonari, il volto vocazionale della parrocchia in un mondo che cambia. come?: https://rivistavocazioni.chiesacattolica.it/2004/04/02/il-volto-vocazionale-della-parrocchia-in-un-mondo-che-cambia-come/
[2] Rossano Sala, Il servizio dell’autorità, Dalla regia dell’oratorio alla sinodalità della Chiesa: https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17104:il-servizio-dell-autorita&catid=586&Itemid=1011